di Diego Marin, Erik Schievenin, Ivan Minella
L’8 Maggio 1953 Albert Einstein, il più grande fisico della storia, si complimentava con Charles Hutchins Hapgood, professore di Antropologia e Storia della scienza al Keene State College del New Hapshire. Nella prima lettera di un lungo scambio epistolare scriveva:
“Trovo veramente notevoli le sue argomentazioni e ho l’impressione che la sua ipotesi sia esatta. Non è possibile dubitare del fatto che spostamenti significativi della crosta terrestre abbiano avuto luogo più volte in un breve periodo di tempo “.
Scrisse poi nella prefazione al libro di Hapgood, “Earth’s Shifting Crust”:
“In ogni punto della superficie terrestre che è stato accuratamente studiato, molti dati empirici indicano che si sono verificati numerosi mutamenti climatici apparentemente repentini. Ciò è spiegabile, secondo Hapgood, se la crosta esterna della terra, praticamente rigida, subisce di tanto in tanto vaste dislocazioni…” H. Einstein.
La teoria suggerita da Hapgood si proponeva di spiegare, all’interno di un unico schema, l’avvento delle ere glaciali, nonché le concomitanti eruzioni vulcaniche su scala mondiale, le estinzioni di massa dei grandi mammiferi, le migrazioni di popolazioni verso il continente americano e l’inizio dell’agricoltura. Tutto rientrava nelle conseguenze di una dislocazione della crosta terrestre come un tutt’uno, sconnessa dal moto lento delle singole placche continentali. Tale fenomeno è stato identificato con certezza dalla geologia come responsabile, 535 milioni di anni fa, della più grande differenziazione delle specie animali, nota come “esplosione Cambriana” . Verso la metà degli anni Sessanta, aiutato dai suoi studenti, il professore iniziò ad esaminare una serie di mappe terrestri, antiche quanto precise, che riportavano regioni terrestri quali la Cina, le Americhe e zone dell’Antartide libere dai ghiacci, molto tempo prima che gli esploratori europei ne sondassero i contorni. Le antiche carte nautiche rappresenterebbero la terra prima dell’ultima dislocazione, quando il Nord America era coperto dai ghiacci e un terzo dell’Antartide ne era invece libera. In quel tempo, popoli di cacciatori-raccoglitori si rifugiarono dalla marea in alta montagna, mentre “le città costruite in pianura e sulla sponda del mare andarono completamente distrutte. Qualche mandria di buoi e gregge di capre, per puro caso scamparono alla morte in qualche anfratto. Furono questi rari armenti che essi portavano al pascolo e che in quegli inizi permisero loro di sopravvivere” . Ciò presume che l’emergere dell’agricoltura, di cui l’allevamento degli armenti rappresenta il primo passo, non sia che la rinascita di un’attività appresa tanto tempo prima. Alle origini dell’agricoltura si interessò, nel 1886, Alphonse de Candolle:
“Per scoprire l’origine geografica di una specie coltivata, uno dei mezzi più diretti consiste nel ricercare in quale paese essa cresce spontaneamente senza il ricorso dell’uomo “.
Il famoso botanico sovietico Nikolai Ivanovich Vavilov (1887-1943), accogliendo l’approccio di Candolle, raccolse in pochi anni più di cinquantamila piante selvatiche di tutto il mondo e individuò otto centri indipendenti di origine delle più importanti piante coltivate, ipotizzando una relazione diretta fra gli otto centri e le più alte catene montuose della terra. Inizialmente, la zona di sviluppo dei vegetali più coltivati nel Vecchio Mondo si trovava nella fascia tra i venti e i quarantacinque gradi di latitudine nord, vicino alle maggiori catene montuose: l’Himalaia, l’Hindu Kush, il Caucaso, i Balcani e gli Appennini. Nel Nuovo Mondo essa correva in direzione longitudinale, conformandosi però in entrambi i casi alla direzione delle grandi catene montuose. Vavilov dimostrò che le coltivazioni più diffuse derivavano da piante originariamente situate su montagne. I superstiti del diluvio, terrorizzati all’idea di un’altra alluvione, si rifugiarono sulle montagne e tramandarono le conoscenze antiche, specie quelle relative all’agricoltura . Dislocandosi la crosta, alcune regioni si spostarono verso l’equatore e divennero più calde. Altre furono sospinte verso i poli ed infine alcune rimasero climaticamente immutate. Solo tre regioni assicurarono stabilità climatica e terre d’alta quota, situate a metà strada tra l’attuale linea equatoriale e la precedente. L’agricoltura tropicale iniziò in questi luoghi 15.000 anni fa, a più di millecinquecento metri sul livello del mare. In Sud America l’agricoltura rifiorì presso il lago Titicaca. Solo in questa zona delle Americhe le piante e gli animali non dovettero migrare per sopravvivere. Qui si coltivarono per la prima volta le patate e si allevarono i lama ed i porcellini d’India. Agli antipodi, il riso fu coltivato per la prima volta a Spirit Cave, sugli altipiani tailandesi. Sugli altipiani etiopici, vicino alle sorgenti del Nilo Blu, venne coltivato per la prima volta il miglio. Com’è possibile che ciò accadde contemporaneamente senza l’intervento di una forza esterna? Lo scorrimento della crosta innescò lo scioglimento delle “vecchie” calotte glaciali ma, come vedremo, ciò avvenne in tre rapidi episodi di cui il primo 15.000 anni fa, il secondo 11.600 anni fa ed il terzo 9.000 anni fa. Dopo quest’ultimo l’agricoltura sembrò nascere, o presumibilmente rinascere, anche in Egitto, Creta, Mesopotamia, India, Cina, anche in questo caso con una concomitanza di tempi incredibile. Secondo Platone, prima della dislocazione, una fiorente civiltà abitava un’isola grande quanto gli Stati Uniti, scavata da una fitta rete di canali, con capitale Atlantide. I suoi abitanti, i Pelasgi, scavarono la metropoli nella roccia secondo una pianta a cerchi concentrici. L’anello esterno ospitava per lo più commercianti, mentre verso l’interno si incontravano giardini, piste, camminamenti e palazzi, fino al centro urbano ed i suoi imponenti templi. Un diluvio la cancellò per sempre e costrinse i sopravvissuti ad emigrare.
Fonte: Antonio Soritto e la sua pagina FB Curiosando in Alto e in basso
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